V.

Dante Alighieri

Al centro della intensa vita politica, culturale e letteraria toscana duecentesca, di cui Firenze stava ormai assumendo il primato, spicca la grande personalità di Dante Alighieri (1265-1321) che, mentre sintetizzerà potentemente le esigenze di quella cultura, le porterà ad un livello piú alto e vasto. Sí che non è certo errata la vecchia immagine del grande poema dantesco come somma poetica, come sintesi geniale della civiltà medievale nei suoi massimi ideali e negli stessi fermenti di tipo umanistico che in quella venivano svolgendosi.

Poeta esemplare per l’enorme esperienza tecnica e poetica formata nella lunga attività precedente la Commedia, Dante è però il poeta in cui piú chiaramente la tecnica è subordinata a problemi personali e storici urgenti, vissuti e sostenuti da una profonda cultura e da una robusta intelligenza.

Donde la particolare importanza che assume per noi la sua stessa biografia, la sua vicenda di uomo impegnato nella vita della propria città e del proprio tempo alla luce di precisi ideali e di precise soluzioni pratiche fino a subire per ciò persecuzioni ed esilio.

1. La vita

Dante nacque a Firenze nella seconda metà di maggio del 1265 da donna Bella e Alighiero II, piccolo possidente, e forse prestatore e cambiatore, data la netta decadenza economica della famiglia, la quale vantava origini nobiliari e cavalleresche nel capostipite Cacciaguida, morto in battaglia durante la seconda crociata e marito di una donna della valle padana, da cui venne il cognome degli Alighieri.

Socialmente Dante appartiene cosí alla piccola nobiltà fiorentina che viveva dei proventi dei possessi terrieri e di qualche attività economica legata ai traffici e al commercio cittadino e insieme solidarizzava con il partito dei «grandi» a cui la vennero accomunando sempre piú le leggi antinobiliari del popolo grasso e minuto (la borghesia), culminate piú tardi negli ordinamenti di giustizia di Giano della Bella che escludevano i nobili dalle cariche pubbliche.

L’adolescenza e la gioventú di Dante si svolgono quindi nei modi tipici della gioventú aristocratica di Firenze: studio delle arti del trivio e del quadrivio (con frequenza probabile della scuola filosofica e teologica dei francescani di Santa Croce e dei domenicani di Santa Maria Novella), equitazione e caccia, danza e partecipazione alle feste date dalle grandi famiglie cittadine, e, quando le guerre comunali lo richiesero, coraggiosa attività militare tra i «feditori» a cavallo alla grande battaglia di Campaldino del 1289 e all’assedio del castello di Caprona nello stesso anno.

E secondo le consuetudini del tempo, Dante venne, ancora fanciullo, fidanzato a Gemma Donati che piú tardi sposò avendone tre figli. Ed è questa l’epoca dell’amicizia con Guido Cavalcanti e con Brunetto Latini, dell’amore per Beatrice, della poesia delle rime giovanili e della Vita Nova.

Ma con il 1295, quando l’esclusione dei nobili dalle cariche pubbliche venne corretta e limitata dall’iscrizione di un nobile ad una delle arti o corporazioni di lavoro, Dante si iscrive all’arte dei medici e speziali (cui appartenevano anche i filosofi) e si dedica, con particolare impegno, alla vita pubblica, avvertendo, con il suo spirito tutt’altro che di letterato evasivo ed astratto, il dovere civile di partecipare alla difficile vita politica fiorentina gravemente minacciata dalla feroce divisione interna fra guelfi neri e guelfi bianchi (i primi piú legati all’appoggio temporale del papato, i secondi piú moderati e inclini a riconoscere l’autorità imperiale) e dalla politica aggressiva e subdola della Chiesa romana, soprattutto sotto il pontificato di Bonifazio VIII.

Dante si avvicina ai Bianchi perché piú equilibrati e gelosi dell’autonomia del Comune fiorentino, ma soprattutto tende a svolgere una funzione di equilibrio interno (sí che sarà fra i promotori del bando dei capi piú settari dei due partiti, fra i quali era il suo amico Cavalcanti) e di difesa delle libertà del Comune dalle ingerenze pontificie.

Dopo un primo periodo in cui egli ricoprí importanti cariche cittadine (fece parte del Consiglio dei Cento, del Consiglio speciale del capitano del popolo, di un consiglio incaricato di preparare le elezioni dei priori), nel 1300 fu eletto alla massima carica del Comune, cioè al priorato, per il bimestre dal 15 giugno al 15 agosto, proprio in un periodo cruciale per i rapporti tra Firenze e il papa, che nel 1301 chiamò in Italia Carlo di Valois sotto la finta figura di paciere, in realtà come valido e decisivo appoggio ai Neri toscani e uomo atto ad imporre l’egemonia pontificia in Toscana.

Dante fu uno dei tre ambasciatori scelti dal Comune fiorentino per recarsi a Roma e cercar di placare l’ira di Bonifazio VIII e solo lui venne trattenuto in Roma come quello che il papa considerava piú deciso ed avverso (si ricordi che nel Consiglio dei Cento Dante si era opposto da solo alla deliberazione di prolungare l’aiuto militare che Firenze da tempo dava al papa per una sua impresa contro gli Aldobrandeschi in Maremma).

Sicché, quando fu lasciato libero di andarsene da Roma, già Carlo di Valois aveva occupato Firenze dando mano libera alle persecuzioni dei Neri contro i Bianchi: e cosí Dante non tornò piú nella sua città e fu colpito nel 1302 da una prima sentenza (27 gennaio) che lo condannava ad una multa, a un esilio di due anni, all’esclusione perpetua dagli uffici pubblici, sotto la generica e falsa accusa di baratteria, e poi da una seconda sentenza (10 marzo) che lo condannava (perché non si era presentato a pagare la multa e a scolparsi) ad essere bruciato vivo.

In un primo tempo Dante volle reagire alla situazione partecipando attivamente ai tentativi che gli esuli bianchi, alleati con i piú vecchi fuorusciti ghibellini, fecero per rientrare con le armi in Firenze, ma dopo la sconfitta subita alla Lastra nel 1304, che Dante interpretò come conseguenza della condotta incerta dei capi dei fuorusciti, egli abbandonò ogni diretto rapporto con quelli, fece «parte per se stesso» e iniziò quel doloroso vagabondaggio per corti e città italiane del centro e del nord che costituisce la piú amara esperienza biografica di Dante e la base di occasioni, conoscenze, motivi profondi di cui si alimenta la grande poesia della Commedia che proprio durante l’esilio fu iniziata e portata a termine.

Difficile ricostruire le tappe del suo esilio. Certo anzitutto egli fu a Verona presso i Della Scala, poi dové passare piú brevi periodi a Treviso e Bologna, finché trovò piú stabile ospitalità presso i signori Malaspina in Lunigiana (quando, secondo una notizia assai dubbia, egli sarebbe passato per un certo periodo anche in Francia frequentando a Parigi la scuola filosofica e teologica della Sorbona). Ed era ancora in Lunigiana quando scese in Italia, nel 1310, a Milano (e a Milano dovette conoscerlo all’inizio del 1310), l’imperatore Arrigo VII di Lussemburgo, da cui egli sperò il ripristino della pace e della giustizia in Italia in forza di quella suprema autorità che Dante aveva già affermato incontrastabile e provvidenziale in campo temporale nel Convivio e che ora come tale ribadiva in alcune epistole latine con le quali egli volle appoggiare l’impresa dell’imperatore.

Ma questa, iniziata sotto felici auspici, venne osteggiata dal papa Clemente V e, dopo l’insuccesso dell’assedio di Firenze, definitivamente fallí a causa della improvvisa morte di Arrigo VII a Buonconvento, presso Siena, nel 1313, mentre scendeva con una forte armata verso Roma e Napoli.

Alla delusione profonda che Dante provò si aggiungevano nuovi provvedimenti che ribadivano il carattere definitivo del suo esilio: esilio che a un certo momento lo stesso Dante preferí coraggiosamente e dignitosamente piuttosto che sottomettersi a pratiche umilianti e indegne della sua alta coscienza morale.

Dopo un soggiorno nel Casentino, presso i conti Guidi, intorno al 1315-1316 egli accettò l’ospitalità offertagli da Cangrande a Verona, dove quel grande signore ghibellino raccoglieva uomini di corte ed esuli politici, per poi passare definitivamente a Ravenna, ospite di Guido da Polenta, ammirato come quel poeta e grande uomo di cultura che era, ma anche adoperato come uomo esperto di politica e di diplomazia. E proprio al ritorno da una ambasceria a Venezia, il grande poeta si ammalò e morí nella notte dal 13 al 14 settembre 1321.

Fu sepolto in una cappella presso la Chiesa di San Francesco a Ravenna, che ne contese sempre le ceneri al desiderio dei fiorentini di riaverle nella propria città.

2. La «Vita Nova»

L’attività poetica dantesca dové avere un inizio assai precoce, assai precedente all’operetta mista di prosa e di poesia, la Vita Nova, che nella sua parte di prosa ci riporta ad alcuni anni (1292-1293) dopo la morte (1290) della donna (Beatrice figlia di Folco Portinari e sposa di Simone de’ Bardi) che ne ispirò la composizione intera e molte delle poesie in quella raccolte.

Ma altre poesie, raccolte nella Vita Nova o lasciate libere e poi ordinate dagli studiosi e commentatori nelle Rime, risalgono ad anni intorno al 1283 e, mentre riguardano certo altre donne, riflettono un tirocinio, un apprendistato di artista che si muove, con crescente abilità e personale ispirazione, entro le maniere poetiche offertegli dal suo tempo: inizialmente la maniera guittoniana e dei poeti toscani sicilianeggianti, poi certo tipo di poesia piú musicale e galante, di grande raffinatezza (come è il caso della tenue e incantevole ballata Per una ghirlandetta o del celebre sonetto Guido, i’ vorrei), poi lo Stil novo nelle forme drammatiche cavalcantiane e in quelle piú dolci ed estatiche del Guinizelli.

Solo al centro delle rime raccolte nella Vita Nova Dante trova un suo motivo e una sua poetica originale, in coincidenza con un momento essenziale della tenue vicenda amorosa che egli delineò piú chiaramente nella parte in prosa.

Dopo la narrazione del primo innamoramento infantile a nove anni e del nuovo incontro a diciotto, la Vita Nova racconta come Dante decidesse di nascondere il vero oggetto del suo amore (Beatrice) attraverso il canto e l’omaggio diretto ad altre donne (le cosiddette «donne dello schermo») e come Beatrice si offendesse del troppo parlare destato dal secondo di questi presunti amori e togliesse a Dante quel saluto in cui egli faceva consistere tutta la sua beatitudine.

Ed ecco che a questo punto il poeta trova il motivo nuovo che supera l’ambito dei motivi degli altri stilnovisti: poiché non può ottenere neppure il saluto, egli capisce come la sua beatitudine debba consistere in qualcosa che non può essere tolto e cioè nella semplice lode della donna amata. Nessuno può impedirgli di lodarne la bellezza e le alte virtú e in quest’atteggiamento totalmente disinteressato egli farà consistere la sua gioia e troverà un innalzamento del suo amore che non vuole nessun compenso e gode solo della sua eccezionale purezza.

Cosí il giovane Dante scopriva un senso altissimo dell’amore che coincideva con l’altezza poetica della lode della donna e che, dopo il programma piú esplicito della canzone Donne ch’avete intelletto d’amore, si realizzava in alcuni grandi sonetti: in cui, come nell’esemplare Tanto gentile e tanto onesta pare, la poesia dello Stil novo dantesco raggiunge la sua particolare perfezione di grazia, di armonia conclusa, di levità raffinata, di coincidenza con l’ideale di una donna che è insieme esempio di armonia, di equilibrio di bellezza e di virtú e quindi anche principio di misura, di equilibrio per una cerchia di uomini di cultura e di poesia che possono contrapporre tali valori allo stesso disordine e squilibrio della città.

E certo Dante con la poesia della lode, che si svolge poi con singolari approfondimenti fantastici fino alla grande canzone Donna pietosa e di novella etate, tocca il punto piú alto della sua poesia giovanile, che pure, a suo modo, si alimenta di nuova ricchezza psicologica del resto del libro con le rime per la morte di Beatrice e quelle per una donna gentile che si mostra pietosa al dolore di Dante e provoca nel suo cuore una momentanea deviazione dal ricordo di Beatrice, a cui finalmente egli è ricondotto con una piú piena sicurezza della presenza duratura di lei nel suo pensiero e nella sua poesia.

In complesso la Vita Nova è un contributo molto originale del giovane Dante alla letteratura del suo tempo, sia come novità tecnica (si pensi alla novità della mescolanza di prosa e di poesia, alla novità della prosa impiegata per un argomento amoroso, prima solo dominio della lirica) e come impostazione di temi e motivi che portano lo Stil novo al suo culmine e consolidano la visione della donna-angelo, sia come concreta offerta di risultati poetici di grazia e di finezza spirituale-espressiva di alto valore.

3. Le opere minori volgari e latine

E tuttavia l’esperienza della Vita Nova, gli stessi suoi alti risultati poetici son pure un momento piú angusto e limitato rispetto alla crescente forza umana, culturale, storica e poetica di Dante.

Mentre Dante si avvicina e si dedica alla vita politica, egli insieme accresce la sua cultura con la continua lettura dei poeti classici e con quella dei moralisti e filosofi e teologi antichi e medievali e viene arricchendo la sua produzione poetica con nuovi gruppi di poesie ispirate a nuovi motivi e a nuove esperienze: dalla tenzone con Forese Donati in cui, in toni fra giocosi e feroci, tipici della vita medievale (che non era fatta solo di spiritualismo e di religione, ma di profonde passioni e di disposizioni estremamente realistiche) e della poesia comico-realistica del tempo, i due amici verseggiatori si scagliano invettive ed accuse, alle canzoni amoroso-allegoriche (che cantano il passaggio di Dante all’amore di una donna simbolo della filosofia), alle canzoni morali e didascaliche (come quella sulla vera natura individuale e non economica o sociale della nobiltà), al gruppo piú poeticamente alto delle rime «petrose», cosí dette perché vi si parla di una donna «pietra» e cioè rigida e ostile alla passione veemente del poeta, fino ad alcune canzoni del tempo dell’esilio, fra cui altissima spicca quella di «Tre donne intorno al cor» in cui Dante esalta il proprio esilio come prova della propria altezza morale che lo rende vicino alle nobili donne simboliche (la giustizia, il diritto naturale, il diritto positivo) attualmente perseguitate ed esuli in un mondo sconvolto ed ingiusto.

Si tratta di poesie che fanno capire lo sviluppo di Dante dai toni piú aerei e lievi della Vita Nova a quelli tanto piú complessi e vari della Divina Commedia, che appunto da quelle diverse esperienze fortemente ha tratto vantaggio: si pensi alle «petrose» con il loro paesaggio invernale aspro e livido che è l’avvio diretto a tanti paesaggi dell’Inferno o alle invettive della Tenzone in rapporto agli alterchi feroci di certe balze infernali o all’altissimo tono della canzone Tre donne che ci conduce al centro ideale del poema (la sete della giustizia e di un ordine, la forza morale della poesia dantesca).

Ma il grande poema trova la sua preparazione in tutta la maturazione della personalità dantesca con i suoi ideali e la sua cultura che già intorno al 1304 (e dunque prima della presumibile data d’inizio della Commedia) si erano venuti in parte consolidando nel Convivio.

In quest’opera, che rimase interrotta dopo il quarto libro (avrebbe dovuto constare invece di quindici libri: uno introduttivo e quattordici di commento ad altrettante canzoni), Dante ha espresso la sua fede nel potere illuminante della ragione e della filosofia e ha voluto divulgarne i principi ed alcune applicazioni fondamentali a tutti coloro che, pur disposti naturalmente alla cultura e alle sue pratiche attuazioni, mancassero della conoscenza del latino.

L’opera è cosí anzitutto importante per la forte volontà divulgativa e culturale di Dante, per la sua energica difesa della lingua volgare italiana ormai atta a servire alla espressione e diffusione scientifica e quindi insieme per la sua pratica creazione di una prosa italiana complessa e lucida, articolata e capace di rendere ragionamenti non facili, certo assai al di là della prosa piú «poetica» ed esile della Vita Nova.

La difesa del volgare, la discussione sulla beatitudine della vita attiva e di quella contemplativa, sull’immortalità dell’anima (secondo trattato), l’elogio della sapienza che avvicina l’uomo a Dio (terzo trattato), la dottrina della nobiltà, fondamento di ogni virtú e dono infuso da Dio in anime ben disposte, non nella famiglia e schiatta (e tanto meno dovuta a ricchezza), e la definizione della necessaria autorità imperiale (quarto trattato) sono i temi trattati nell’opera con l’impegno di una vastissima cultura personalmente e originalmente rivissuta e con la forza di una prosa intellettuale che ben fa intendere quanto la fantasia dantesca si avvalga anche di una struttura intellettuale robusta che prepara alla invenzione immaginosa un materiale concettualmente posseduto e personalmente vissuto e come la poesia della Commedia si sia giovata di un simile alto esercizio di prosa e di linguaggio intellettuale e scientifico, specie in rapporto alla singolare poesia del Paradiso che sa affrontare poeticamente i temi piú ardui ed apparentemente astratti.

Di questa sua aumentata capacità espressiva, della forza e complessità del proprio linguaggio (e quindi, mercé sua, della forza e complessità del linguaggio volgare italiano), Dante volle rendersi conto in forma teorica e generale mediante l’alto trattato (anch’esso interrotto all’altezza dell’inizio del poema), scritto fra il 1304 e il 1307 all’incirca: cioè quel De vulgari eloquentia, che voleva essere anche un altro mezzo di risposta alle esigenze di una larga massa di uomini non dotti (e cioè non capaci di usare il latino) fornendoli di una norma, di un insieme di regole trasportate dal latino al volgare e tali da togliere a questo la rozzezza e l’incertezza che Dante riscontrava in molti degli stessi poeti volgari.

E se nelle intenzioni di Dante l’intera opera (che doveva risultare di quattro libri, mentre restò interrotta al capitolo quattordicesimo del secondo libro) avrebbe dovuto trattare della prosa volgare e del linguaggio da adoperare negli stili inferiori piú aperti a forme locali e municipali, di fatto avvenne che l’opera a noi rimasta trattò soprattutto del linguaggio volgare adatto alla poesia e allo stile piú alto (o tragico di fronte al piú basso, elegiaco, e a quello medio o comico) legato ai temi dell’amore, delle armi, della virtú.

Ma l’opera non è solo un trattato di preparazione allo scrivere, alla lingua letteraria, perché nel primo libro Dante genialmente imposta importanti problemi e soluzioni di carattere linguistico generale individuando, se pure non interamente, il gruppo delle lingue romanze e poi scendendo a classificare i dialetti italiani.

Di fronte a questi e ai loro limiti particolari egli propone una lingua unica, nazionale, superiore ai dialetti, formata dal discernimento e dalle regole di letterati e di dotti e che dovrebbe essere usata in quella ideale corte di cui l’Italia disunita mancava, ma che idealmente poteva immaginarsi nell’unione appunto dei dotti e degli uomini di alta cultura.

Cosí Dante apriva anche quella grossa «questione della lingua» che costituirà un capitolo importante della storia letteraria italiana, soprattutto dal Cinquecento in poi.

Se il Convivio rappresenta la base piú vasta ed enciclopedica della cultura e delle proposte di cultura di Dante, e il De vulgari eloquentia ne costituisce la base linguistico-letteraria, la Monarchia (molto probabilmente scritta dopo l’insuccesso di Arrigo VII e in anni in cui già il poeta stendeva il poema) è la consolidata espressione delle idee politiche dantesche e in tal senso l’opera piú legata alle prospettive ideali e pratiche della stessa Commedia in cui l’elemento politico è cosí forte e decisivo.

Già nel quarto libro del Convivio Dante aveva impostato il problema della autorità imperiale necessaria alla felicità della vita umana. Ora, dopo tante esperienze, illusioni e delusioni, egli ripresenta il grande problema e lo studia e risolve con una sicurezza e un’alta fede che gli insuccessi non hanno diminuito, ma anzi accresciuto con lo spettacolo del disordine in cui si trova l’Italia perché priva di una autorità capace di imporsi alle contese dei piccoli stati e delle opposte fazioni e perché viceversa resa ancora piú disordinata dalle pretese politiche della Chiesa: come era avvenuto al momento della discesa di Arrigo VII il cui insuccesso era stato dovuto in gran parte all’ostilità della Chiesa.

Nella Monarchia, scritta in latino, e interamente compiuta, la discussione del problema politico, quale poteva presentarsi ad un uomo della civiltà medievale, si articola nei tre libri in cui l’opera è divisa.

Nel primo si tratta del fine della società umana che è lo sviluppo massimo del nostro intelletto e della nostra coerente azione. A questo fine è necessaria la pace nella giustizia, la quale, a sua volta, può essere garantita solo dal potere imperiale universale.

Nel secondo libro si prova come vera la legittima attribuzione dell’impero al popolo romano, mentre nel terzo si discute il problema piú grave e dolente: quello del rapporto fra Impero e Chiesa, che i fautori del potere temporale e della superiorità della Chiesa risolvevano in base alla qualità del papa come vicario di Cristo in terra e con il paragone del sole e della luna (come questo riceve la luce da quello, cosí l’Impero riceve la sua autorità dal papa che l’ha ricevuta direttamente da Dio).

Dante invece dichiara assurda quella pretesa e illegittima la famosa creduta donazione di Costantino, dato che il papa, per espresso divieto di Cristo, non può possedere beni temporali.

E al posto della teoria del sole e della luna propone quella di due guide ugualmente necessarie alla società umana e all’adempimento dei suoi fini: la guida del papa nel campo della vita spirituale e per la conquista della felicità eterna, quella dell’imperatore nel campo della vita terrena e pratica e per la conquista della felicità mondana.

Con tale netta distinzione di fini e di guide (invano moderata nel finale dell’opera dove si parla di una certa dipendenza dell’imperatore dal papa come del figlio primogenito dal padre) Dante sfiorava la ribellione anche teologica alle dottrine della Chiesa e assumeva un atteggiamento di profeta e di propugnatore di una verità che sarà essenziale nel poema e nella coscienza di una sua missione. E quello che nella Monarchia è pensato con rigore e minuta logica, nel poema verrà esaltato ad un grado di tensione piú alta in cui l’intelletto e la fantasia collaborano e la missione profetica si fa insieme visione poetica.

Agli ideali politici di Dante e al suo impegno pratico di uomo politico si ricollegano anche quelle belle e commosse epistole in latino (fra le tredici che ci rimangono in tutto) che egli rivolse, nel periodo dell’esilio e in occasione della discesa di Arrigo VII, ai potenti d’Italia, ai fiorentini, allo stesso imperatore, e poi, dopo la morte di questo, quella del 1314 ai cardinali italiani per esortarli a eleggere un papa italiano e, al di sopra di tutte come documento alto della grande dignità morale dell’uomo, quella rivolta ad un amico fiorentino per escludere recisamente ogni compromesso umiliante come condizione al suo desideratissimo rientro in Firenze. Ed è qui che, nella prosa aulica latina, la poesia dell’esule appassionatamente nostalgico della sua città, centro dei suoi affetti privati e civili, ma insieme virilmente consapevole dell’unione indissolubile fra dignità e vita stessa, si esprime con toni che fanno pensare a quelli piú alti dei canti della Commedia in cui il poeta esalta la propria missione di giustiziere e di profeta come legata alla sua dignità eroica e incontaminata.

Su di un piano meno intenso, ma non senza qualche interesse generale, si possono considerare, nell’ultimo periodo della vita di Dante, due ecloghe latine con cui egli rispose negativamente all’invito rivoltogli, alla fine del 1319, da un dotto bolognese, Giovanni del Virgilio, a lasciare nella sua poesia il volgare per il latino e a recarsi a Bologna dove sarebbe stato coronato poeta.

Le risposte di Dante, che riaffermano la sua volontà di raggiungere la gloria poetica nella letteratura volgare e di desiderare un’eventuale incoronazione poetica solo nella sua Firenze (e poi come andare a Bologna retta da guelfi neri a lui ostili?), sono prova cosí della sua chiara consapevolezza e volontà nei confronti della via scelta con la Commedia e, d’altra parte, anche, per il loro stile squisito, del diretto possesso dantesco del latino, della lingua dei classici che tanto avrebbe fruttato nella formazione stessa del suo linguaggio poetico italiano.

E ancora l’invito rivoltogli da Giovanni del Virgilio è prova interessante della fama raggiunta già in vita da Dante in ambienti di alta cultura, come una simile prova si può ricavare dall’ultima operetta minore in latino che può attribuirsi a Dante: quella Questio de aqua et terra che dové esser letta il 20 gennaio 1320 a Verona, alla presenza di tutto il clero cittadino, per sostenere la tesi che la terra emersa è piú alta in ogni punto della superficie del mare. Un’operetta di stretto contenuto scientifico e di andamento strettamente dimostrativo, ma che si ricollega al vasto possesso di cognizioni scientifiche e alla stessa disposizione alla discussione scientifica che colpí molto i contemporanei di Dante (che lo ritennero nullius scientiae expers, scienziato, filosofo e teologo sommo) e che certo è essenziale alla stessa formazione e costituzione della Divina Commedia.

4. Motivi fondamentali della «Commedia»

Per capire la grandezza della Commedia (come Dante la chiamò in relazione alla ricordata distinzione degli stili: e commedia dunque per l’argomento e lo stile medio misto[1]) occorre anzitutto intendere ciò che il poeta volle fare con quel poema, a cui han «posto mano e cielo e terra», e che egli considererà come il supremo tentativo poetico possibile nel suo tempo, e dunque con una chiara coscienza della sua grandezza e della sua importanza.

In effetti Dante, coerentemente al pensiero medievale sulla poesia, si propose una poesia con uno scopo pratico ben preciso, con una destinazione e missione civile, pubblica, storica e universale: un contributo essenziale ad una riforma della condizione storica fiorentina e italiana, la rivelazione, in forma di visione, di una giustizia superiore che doveva incidere sul pratico comportamento dei potenti e di tutti gli uomini, inducendoli a vivere e ad agire rettamente e coerentemente ai grandi principi ordinatori dell’aquila e della croce, dell’Impero e della Chiesa nei loro ben distinti ambiti.

A questo scopo sono legati i procedimenti dell’allegoria, del viaggio ultraterreno, del continuo insegnamento morale e civile, filosofico-religioso a cui è sottoposto (e collabora) il personaggio Dante, simbolo dell’uomo in generale, da parte dei grandi personaggi simbolici di Virgilio (la ragione) e Beatrice (la teologia).

Ed è perciò risolutamente da rifiutare l’interpretazione critica che vorrebbe vedere la Commedia come una poesia attuata malgrado o contro quei procedimenti e contro la stessa destinazione che Dante le dette e le impresse come direzione fondamentale.

Non malgrado l’allegoria, il didascalismo, la filosofia scolastica, la missione rivelatrice e ordinatrice la grande poesia dantesca si è realizzata, ma proprio, viceversa, in quelle condizioni e con quei mezzi espressivi cui lo portavano la sua educazione e la sua mentalità di uomo del Medioevo.

E la grandezza della fantasia dantesca, che seppe alimentarsi di tanta cultura e investirla ed esprimerla con tanta potenza poetica (senza la quale avremmo dottrina, cultura e posizioni storicamente interessanti, ma non la poesia che le esalta e potenzia e dà loro una maggiore penetrazione e capacità di testimonianza storica), ne risulta tanto maggiore di quella che essa aveva raggiunto nell’ambito anche culturale e ideale piú limitato della Vita Nova.

Proprio la Divina Commedia deve far capire al giovane come la grande poesia è quella che sa far vivere poeticamente profondi problemi, visioni complesse del mondo, esigenze supreme di rinnovamento morale, modi di cultura vasta e originale.

La prospettiva in cui Dante concepisce il suo poema è certamente anzitutto una prospettiva morale, profetica, di riforma e di rinnovamento umano e religioso. Non solo – ad usare l’Epistola a Cangrande come documento autentico dantesco almeno nelle sue linee essenziali – in quell’epistola si insiste sul fine del poema come opus practicum, come opera volta ad ammaestrare gli uomini in senso morale e non puramente didascalico-filosofico, ad avviarli sulla strada del bene, del vivere secondo morale, giustizia e religione. Ma nel corso dello stesso poema Dante parla esplicitamente di una sua missione provvidenziale e profetica chiarita potentemente nel canto XVII del Paradiso, quando il suo trisavolo Cacciaguida (con l’autorità che gli deriva dalla sua qualità di beato, ma insieme di antenato e di uomo intero: cittadino di una Firenze giusta e morale, cristiano e cavaliere, martire morto combattendo per la fede e per l’impero) lo sprona a rivelare la sua miracolosa visione oltreterrena, ad esercitare la sua missione di poeta giustiziere che non deve risparmiare nessuno, neppure i piú alti personaggi, principi o papi che siano, affinché le sue parole e i suoi esempi di virtú premiata e di peccati puniti colpiscano gli uomini e li ammoniscano a scegliere la via del bene.

Il coraggio della verità, la coscienza della sua missione eccezionale, dovranno guidare la sua opera poetica che continua, in un grado tanto piú alto, la missione di tutta la sua vita ispirata alla giustizia e che perciò gli ha già fruttato esilio e sventure da parte dei nemici della verità e della giustizia.

Sicché la Commedia è anzitutto da comprendere in questa sua formidabile spinta morale e profetica, nella volontà dantesca di contribuire ad un rinnovamento dell’umanità e della società del suo tempo, corrotta e sviata dallo spirito di egoismo, di cupidigia, di viltà, dalla malvagia e sciocca incomprensione delle vie indicate da Dio e dai suoi interpreti (santi, filosofi, legislatori politici) per ottenere la beatitudine di questa vita e la beatitudine ultima e oltreterrena che sulla prima però saldamente si basa.

Quelle vie sono state abbandonate per colpa dei cattivi pastori, che possono essere volta a volta i cattivi imperatori e i cattivi pontefici (i primi dimentichi della loro missione universale, i secondi dimentichi della loro funzione spirituale), ma che verranno identificati soprattutto nei secondi e nel loro spirito mondano, nella loro pretesa di dominio temporale che ha confuso lo scettro col pastorale, ha impedito l’organizzazione giusta dell’impero e ha insieme perso di vista la purezza evangelica e i compiti religiosi. Donde l’ansia crescente, nel poema, e specie nel Paradiso, di una riforma della Chiesa e del papato che, se non può certo qualificarsi eretica e fuori dell’ortodossia cattolica, dà alla Commedia un carattere di estrema severità nei confronti del traviato supremo potere ecclesiastico. Non occorrerà cosí riprendere le vecchie tesi, variamente sostenute dal Foscolo e poi dal Pascoli, di un Dante riformatore eretico e magari partecipe di una setta segreta, ma converrà ben rilevare la decisione con cui Dante prende posizione contro tutta una tradizione ecclesiastica temporalistica e sfruttante quella donazione di Costantino che Dante crede vera (diversamente da quanto farà la critica storica, dall’umanesimo in poi, che ne dimostrerà la falsità), ma pensa diretta solo, nelle intenzioni del donatore, a dotare la Chiesa di mezzi atti a soccorrere i poveri, non a creare la base di un assurdo potere politico della Chiesa. E proprio per bocca del primo papa, san Pietro, nel canto XXVII del Paradiso, egli condannerà roventemente i papi corrotti, come, per bocca di Beatrice, e proprio nelle ultime parole (lette prima di lasciarlo, nella mistica rosa (canto XXX del Paradiso), egli troverà modo di riportare al piú tragico immediato passato, e cioè al fallimento dell’impresa di Arrigo VII per colpa di Clemente V, la ribadita condanna soprattutto dei reggitori spirituali che rovinano il mondo. Mentre lui, uomo giusto e poeta della giustizia, retto interprete delle supreme idealità dell’aquila e della croce, dell’Impero e della Chiesa, potrà, per volere divino, giungere alla visione di Dio e della doppia beatitudine umana e oltremondana.

Senza volere immaginare che Dante avesse realmente una visione miracolosa, è indubbio il fatto che egli era persuaso della verità sostanziale della sua visione e della giustezza della sua profezia e che egli volle, col suo poema, far ben piú che un’opera di pura fantasia o una creazione di belle e alte immagini, o una galleria di paesaggi e di personaggi. Volle invece, da grandissimo poeta, usare la sua suprema potenza fantastica, la sua suprema capacità ed esperienza artistica e tecnica (raggiunta attraverso tutte le esperienze precedenti alla Commedia e in questa accresciute in un progresso instancabile), per incarnare poeticamente la sua visione profetica, per rendere fantasticamente evidente e reale il suo viaggio oltremondano sorretto dalla sua persuasione e dalla sua fede nella destinata salvezza degli uomini dalla corruzione presente.

Cosí facendo egli era ben lontano dalla semplice letteratura didascalica e da una specie di lezione in versi e il segreto della sua grandezza poetica è in questa eccezionale fusione di un fine spirituale e morale supremo e di una forza fantastica che si accresce e si potenzia quanto piú essa è esaltata dal suo stesso compito di messaggio salvatore, di intervento nella realtà storica.

Non si tratta cosí (come sembrò al grande critico idealistico, il Croce) di un romanzo teologico su cui si libra, a tratti, la poesia come la verzura adorna e copre, a tratti, un massiccio edificio che la sostiene, ma non la alimenta.

Si tratta invece di una fusione intima (attraverso la fede unica nella poesia e nei suoi contenuti, attraverso la poetica della persuasione, della verità, della missione profetico-poetica) di tutti gli elementi della cultura, della filosofia e teologia, dell’esperienza umana di Dante entro una tensione espressiva che li unifica e li trasforma in visione poetica. Questa avrà poi diversi gradi di forza e di resa artistica. Non tutto, ovviamente, è ugualmente alto e riuscito nel poema. Ma è sbagliato affermare che la ragione della minore forza poetica in certe parti del poema deriva da una specie di contrasto essenziale fra il peso impoetico della cultura filosofica e la libera fantasia che con difficoltà e solo a tratti si svincola da quel peso. Ché anzi proprio quando la fusione fra cultura e fantasia sarà piú intima, la poesia sgorgherà piú densa e potente, sintetica, organica.

E cosí nella lettura della Commedia il giovane dovrà stare attento a non staccare gli stessi singoli episodi o i singoli personaggi dalla loro funzione nei vari canti, nelle varie parti, nelle varie cantiche e in tutto il poema. In tutto il poema una voce suprema, la voce di Dante, personaggio e poeta, esprime, con varietà inventiva, ma mai casuale e puramente episodica, le situazioni e le emozioni del grande protagonista nel suo itinerario verso Dio.

Una voce che ha un’enorme ricchezza di toni (da quello drammatico a quello elegiaco, a quello idillico, a quello epico, a quello satirico, a quello estatico e contemplativo), ma un essenziale accento di fermezza, di essenzialità, di centralità in cui si risolvono la forza morale, la volontà e persuasione di verità e di giustizia, la profonda maturità umana, culturale e storica di Dante.

E certo questo accento di ferma passione morale, di ansia di giustizia, appare cosí centrale che gli altri molteplici toni (che possono giungere sino alla piú sensibile delicatezza, ma mai fino al languore e al sentimentalismo, dal cui pericolo Dante è radicalmente lontano) ad esso sempre si appoggiano ricavandone una sobrietà, un rigore, un’essenzialità sin nelle sfumature piú morbide.

Perciò di nuovo indicheremo nella centrale forza morale e nel sentimento alto della giustizia i punti piú chiari della personalità dantesca nella Commedia: sino a quegli eccessi di ferocia nei giudizi e nelle pene che potrebbero apparire agli uomini di diversa epoca storica quasi incompatibili con un profondo sentimento umano e cristiano. E certo, se in Dante si apre spesso un fervido mondo di affetti, di cordialità e di pietà, di comprensione, il giudizio morale e religioso non vien mai meno ed egli può esprimere intero il suo affetto filiale e il senso del suo debito culturale per Brunetto Latini pur collocandolo fra i peccatori di un vizio duramente condannato.

Né si può dire che il vigore e l’asprezza di giudizio siano piú propri dell’Inferno, ché basterebbero, nel Paradiso, le invettive di san Pietro, già ricordate, contro i papi, per smentire quella dubbia osservazione.

Cosí come (e lo abbiamo già indicato) la prospettiva etico-politica costitutiva della personalità dantesca e della poesia della Commedia non si esaurisce mai lungo tutto il poema, riaffiorando sin nei canti piú alti del Paradiso.

5. La «Divina Commedia»

Ispirata al supremo criterio della giustizia divina, che assegna nell’aldilà pene e premi agli uomini in relazione alle loro azioni durante la vita, e costruita sull’appoggio delle idee geografiche e cosmografiche della scienza medievale nella sua ripresa del sistema tolemaico e aristotelico, la struttura della Divina Commedia si presenta anzitutto al lettore con una sua lucida e salda evidenza di costruzione architettonica, sempre corrispondente a ragioni morali e simboliche. Attraverso le varie parti di questa formidabile e potente costruzione, attraverso i tre regni – inferno, purgatorio, paradiso –, si svolge il viaggio di Dante che simboleggia l’esperienza spirituale di progressiva purificazione dell’anima umana ammaestrata dalla visione dei vizi e delle virtú e delle loro conseguenti pene e premi.

Scomparsa dalla vita terrena Beatrice, la donna che lo aveva sorretto nella via della virtú e della religione, Dante è caduto nella selva del peccato. Sulle soglie di quella, nella primavera del 1300 (l’anno del giubileo), egli incontra Virgilio, simbolo della ragione umana, inviato a lui da Beatrice, simbolo della teologia, e ne è aiutato a liberarsi dall’ostacolo delle tre fiere, simbolo di tre vizi capitali, e ad intraprendere il viaggio (che durerà sette giorni) nei regni dell’oltretomba.

Egli scenderà cosí anzitutto nell’Inferno, immaginato come una profonda cavità a forma di cono rovesciato, aperto al di sotto della terra abitata e del suo centro, Gerusalemme, e imperniato nel centro del globo terrestre, dove è confitto Lucifero.

L’enorme cavità infernale è suddivisa in cerchi sempre piú bassi in ognuno dei quali è punito un peccato, secondo un criterio di progressiva gravità dei peccati e secondo una fondamentale tripartizione di questi, che si inizia dopo il vestibolo dell’Inferno occupato dagli ignavi (coloro che non seppero essere né buoni né cattivi e che appaiono dunque piú spregevoli degli stessi cattivi) e dopo il cerchio del Limbo, dove sono raccolti quanti non ebbero il battesimo e soffrono, senz’altra pena, della loro lontananza da Dio.

La grande tripartizione (incontinenti, violenti, fraudolenti) è a sua volta interamente articolata in suddivisioni delle tre categorie generali. Fra gli incontinenti – coloro che non seppero contenersi nell’usare di quelle cose che Dio concede all’uomo perché possa conservare la vita – Dante cosí vedrà i lussuriosi, i golosi, gli avari e i prodighi, gli irosi e gli accidiosi.

Poi, dopo essere passato attraverso il cerchio degli eretici, che si posero fuori della fede cattolica, Dante scenderà nel cerchio dei violenti, suddivisi in violenti contro il prossimo, contro se stessi e contro Dio (o direttamente come i bestemmiatori, o indirettamente come i sodomiti che peccano contro la natura e gli usurai che peccano contro l’arte-lavoro), e successivamente in quello dei fraudolenti suddivisi in fraudolenti contro chi non si fida (nelle dieci bolge) e in fraudolenti contro chi si fida o traditori, posti nel lago ghiacciato di Cocito, al cui centro si trova Lucifero.

Dal centro della terra Dante e Virgilio passano nell’emisfero australe, agli antipodi di Gerusalemme, dove in mezzo al mare si innalza, a forma di cono tronco, l’enorme montagna del Purgatorio, anch’esso diviso in base alla distinzione morale dei peccati posti in una successione inversa rispetto a quella dei peccati dell’Inferno. Là i peccati si succedevano dai piú lievi ai piú gravi, qui si succedono dai piú gravi ai piú lievi, dopo la zona iniziale dell’antipurgatorio in cui si trovano le anime che debbono passare un periodo di attesa prima di salire ad espiare il loro peccato e a purificarsi per poi ascendere al Paradiso.

Anche il vero e proprio Purgatorio è diviso in tre grandi zone a lor volta divise in sette cornici; quella di coloro che desiderarono cose pienamente peccaminose (superbi, invidiosi e iracondi), quella di coloro che amarono troppo debolmente Dio e troppo debolmente seguirono la virtú (gli accidiosi), quella di coloro che amarono troppo le cose terrene (avari e prodighi, golosi, lussuriosi). Tutti gli spiriti che si purificano sono sottoposti a tormenti che, come nell’Inferno, sono in rapporto di contrasto o di somiglianza con il loro peccato (la legge del contrappasso).

Sulla vetta della montagna del Purgatorio si estende una vasta foresta, piena di fiori, il Paradiso terrestre, attraversato da due fiumi, Lete e Eunoè, in cui Dante, dopo aver assistito ad una simbolica visione che raccoglie in successivi quadri i momenti essenziali della storia umana, viene immerso e purificato prima della sua ascesa al Paradiso, per la quale a Virgilio si sostituisce Beatrice come guida del pellegrino-poeta.

Il Paradiso appare a Dante distinto in nove cieli concentrici e sempre piú vasti (Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno, Cielo delle stelle fisse, Primo Mobile) nei quali egli può vedere successivamente i beati distinti in gruppi ascendenti (coloro che hanno mancato ai propri voti religiosi, coloro che agirono rettamente, ma aspirando soprattutto alla gloria terrena, coloro che, pur seguendo la legge di Dio, amarono troppo caldamente, poi gli spiriti sapienti, i combattenti per la fede, i contemplanti) solo per permettere a lui di vederli piú distintamente, dato che in realtà essi tutti dimorano nel decimo Cielo infinito, l’Empireo, e tutti godono ugualmente della visione di Dio.

Dopo esser passato attraverso i nove cieli, dove egli incontra i beati e (nel Cielo delle stelle fisse) viene esaminato da san Pietro, san Giacomo, e san Giovanni sulle tre virtú teologali (mentre nel Primo Mobile egli ha una prima visione delle gerarchie angeliche e del trionfo di Cristo e di Maria), Dante giunge all’Empireo, dove, assistito da san Bernardo (Beatrice lo lascia per occupare il suo seggio paradisiaco), vede la «mistica rosa» in cui sono disposti ora tutti i beati, e può contemplare direttamente Dio, completando cosí, in un supremo momento di estasi e di conoscenza mistica, il suo itinerario di purificazione e di graduale passaggio dalla selva dei vizi alla beatitudine celeste.

Viaggio, paesaggio, visione, tutto è strutturato con potente, lucida forza ed evidenza a cui servono gli essenziali richiami simmetrici di numeri «perfetti» (tre cantiche di trentatré canti, piú uno nella prima cantica, a forma di proemio, le tripartizioni dei tre regni oltreterreni), le allegorie fondamentali (dalla selva dei vizi e le tre fiere ai simboli della croce e dell’aquila del Paradiso), il succedersi delle guide di Dante, la legge del «contrappasso». E insieme tutto è potentemente vivo, mobile e denso in ogni particolare, riboccante di vita poetica sia nelle varie prospettive del paesaggio e della visione, sia nelle reazioni psicologiche e morali del protagonista e dei personaggi, sia nelle forme del dialogo e degli incontri, sia nelle stesse peripezie del viaggio.

E tutto è costantemente avvivato da una tensione poetica in cui Dante ha tradotto coerentemente, e con la sicurezza suprema della sua maturità artistica, la sua profonda esperienza della vita, della realtà, le sue mature prospettive ideali, la sua molteplice ed organica cultura, la sua interpretazione della storia umana e la sua volontà di trasformarla nella direzione di una civiltà superiore e liberata dall’ingiustizia e dal peccato.

6. Composizione e struttura della «Divina Commedia»

Dante si accinse alla sua suprema impresa poetica negli anni successivi alle esperienze piú amare e delusive della lotta politica in Firenze, della sua infelice partecipazione ai tentativi degli esuli bianchi e ghibellini («la compagnia malvagia e scempia») di rientrare con le armi in Firenze e dopo l’interruzione del Convivio e del De vulgari eloguentia, quando egli fu tutto preso (intorno al 1307-1308) dal suo nuovo e grande disegno poetico inteso ad opporre alla situazione storica e personale un messaggio di verità e di giustizia strutturato in vigorose linee costruttive di visione, fondata filosoficamente e teologicamente e tradotta in immagini e in simboli poetici e culturali insieme, evidenti e capaci di colpire l’immaginazione, ma insieme carichi di significati sollecitanti nei lettori la riflessione razionale, la meditazione spirituale e un impegno morale. E perciò la grande cultura del poeta mirava a tradursi attraverso il linguaggio volgare, aperto a tutti, e con una larga possibilità di toni diversi, sulla base di uno stile «comico» (cioè medio), capace di elevarsi verso forme alte e drammatiche, come di scendere verso forme piú comuni e realistiche.

Di questa visione, disposta in forma di esperienza personale, di viaggio, di vicenda riferita a una situazione presente e diretta ad operare sulla realtà (e per ciò stesso diversa dalle forme delle visioni medievali che esponevano direttamente e nudamente le condizioni dell’animo dopo la morte o riferivano di viaggi oltreterreni di personaggi astratti e leggendari), Dante impostò certo le linee generali sin dall’inizio. Ma è anche chiaro che tutto si venne meglio chiarendo e perfezionando (cosí come venne insieme crescendo la fusione intima fra simboli e poesia, fra significati e immagini, e venne precisandosi lo stesso impegno poetico-profetico in relazione alle successive esperienze vissute dal poeta: nuove fasi dell’esilio e vicenda di speranze e delusioni nella drammatica situazione della discesa di Arrigo VII) a mano a mano che l’opera veniva attuandosi. Sí che la Commedia appare come un’opera che, sulla base di un iniziale disegno, si svolge in progresso, ben diversamente dalla semplice esecuzione di un rigido schema precostituito. In essa rifluisce e confluisce tutta l’esperienza vitale, storica, culturale, letteraria di Dante nella sua maturità e nel suo successivo svolgersi fino agli anni piú tardi riassorbendo in sé (a parte l’interferenza della Monarchia che è poi strettamente complementare al chiarirsi del centrale motivo politico della Commedia e a parte alcune epistole ed altre cose minori già ricordate) tutta la vita di Dante dal 1307-1308 in poi.

Cosí l’inizio della prima cantica, l’Inferno, appare, nei primi canti, in qualche modo piú rigido, meno libero e fuso: vi prevalgono in forma piú scoperta le allegorie fondamentali (la selva, le tre fiere, Virgilio, il Veltro, ecc.), anche se la poesia comincia ad effondersi e a legare paesaggi, personaggi-esempi, giudizio e pietà, sviluppo di situazioni e di affetti (specie nel canto quinto, di Francesca), e lo stesso profilo piú schematico di figure allegoriche (ad esempio la fortuna del canto VII) non manca mai del tutto di una singolare eleganza e di una suggestione fantastica.

Ma certo tanto meglio con il canto X (di Farinata e Cavalcante de’ Cavalcanti: figure che non possono essere disgiunte nella valutazione poetica di quel canto, cosí vivo fra giudizio, comprensione, ammirazione e pietà) e dopo la parentesi chiarificante dell’XI (con la tripartizione dell’Inferno) la poesia dell’Inferno si fa piú intera e il poema scorre in modi narrativi e rappresentativi piú densi e sicuri e con una inventività piú varia e pur coerente ad una poetica piú chiaramente realistica, plastica, di somma evidenza di figure e paesaggi nel loro intero riferimento simbolico e morale.

Si pensi, in particolare, al grande canto tredicesimo in cui, a contrasto con l’animata scena dei centauri in caccia del canto precedente, la cupa selva dei suicidi, le arpie, il contorto, elaborato discorso di Pier della Vigna e la sua desolata rappresentazione della sorte dei suicidi dopo il giudizio universale, il profondo riferimento del paesaggio silvestre alla pena disumanante dei suicidi trasformati in piante creano un’intera visione dolente, fra giudizio e pietà, e la rumorosa caccia finale delle cagne nere dietro agli scialacquatori rompe il clima sinistro ed immobile con un ritmo movimentato e drammatico che si placa nelle ultime parole epigrafiche e funerarie di Rocco de’ Mozzi («io fei giubbetto a me delle mie case») che suggellano il motivo del suicidio, della privazione sventurata e peccaminosa del proprio corpo da cui nasce, con coerenza e ricchezza psicologica e fantastica, la complessa poesia di tutto il canto.

O si pensi alla foga inventiva e violentemente comica dei canti dei barattieri e dei diavoli o alla fantasmagorica rappresentazione delle metamorfosi fra uomini e serpenti nel canto dei ladri o alla cristallizzazione di tutta la vita nella ghiacciaia di Cocito dominata dai giganti-torri.

E si noti, sulla base di questo esempio, come sia importante per il lettore della Commedia abituarsi ad avvertire convenientemente non solo la coerenza dei legami fra canto e canto, ma la forza di costruzione e di organico svolgimento di interi canti, evitando la lettura frammentaria di brevi «episodi» e l’isolamento di singoli personaggi.

Tutto si fa rappresentazione evidente fino alla fisicità, fra staticità assoluta e assoluto movimento, tutto si lega in visioni riboccanti di vitalità, di forza plastica, di energia fonica e pittorica. E tutto esprime le varie condizioni del giudizio e delle reazioni complesse di Dante di fronte a personaggi e situazioni: reazioni in cui il giustiziere e portatore di un giudizio divino si rivela insieme uomo di salda e ricca umanità che realizza l’arduo nesso fra deciso ed eterno criterio morale e disposizione a vivere incontri con personaggi-esempi come con persone vive e sollecitanti i moti piú vivi e genuini della sua personalità. E ciò perché i personaggi e le vicende sono sí esemplari, ma di un’esemplarità tutta fusa con la viva figura del personaggio e della sua storia e cosí permettono al poeta di giudicarli e di riviverne le situazioni contemporaneamente, senza mai cedere al sentimentalismo indulgente né al giudizio astratto e puramente legalistico.

Certo nell’Inferno la forza delle reazioni di Dante e l’energia rappresentativa, scenica, drammatica, plastica, raggiungono il loro massimo culmine e il rapporto del poeta con il mondo rappresentato è di particolare vivacità e reattività: fino allo sgomento di fronte alla pietà dei due cognati nel canto di Francesca («e caddi come corpo morto cade»), fino all’invettiva contro il superbo Filippo Argenti e alla feroce scossa al capo del traditore della patria, Bocca degli Abati. E coerentemente i paesaggi sono portati a tinte cupe e forti specie nella tonalità del livido e del petroso, e il linguaggio asseconda e intensifica le emozioni, le reazioni, le rappresentazioni intense e aspre con un rilievo di suoni e di densità fisico-espressiva che sembra compiacersi persino delle rime «aspre e chiocce», delle parole violente e plebee, e insieme di forme magnanime e vigorosamente morali come nel canto di Farinata, sia nella forza statuaria-eroica («né mosse collo né piegò sua costa»), sia nell’espressione di una superiorità morale che supera le condizioni del dannato («come avesse l’inferno in gran dispitto»).

Una piú accesa e aperta passione etico-politica e un piú costante riferimento alle brucianti vicende fiorentine (il canto VI di Ciacco o quello di Farinata o l’invettiva contro Firenze nel canto dei ladri) sorreggono questa prospettiva piú apertamente combattiva e sdegnosa, in un periodo in cui evidentemente Dante spera sí nel veltro e nella funzione rinnovata dell’Impero (di cui lo stesso Virgilio-ragione è anche alto cantore e sostenitore), ma soprattutto si cruccia per l’analogia fra l’Inferno, la vita mondana corrotta, peccaminosa, irrazionale, irreligiosa, e la stessa Firenze odiata e amata, lacerata da lotte intestine, facile preda del simoniaco Bonifazio VIII e della politica degli angioini in Italia.

E senza volere porre degli stacchi troppo bruschi e troppo precisi si potrà certo dire che la stessa prospettiva storico-politica trova un progressivo ampliamento nel Purgatorio, passando dalla invettiva all’Italia (nel canto VI del Purgatorio), agli imperatori di Germania che la trascurano, ai papi che corrompono tutto invadendo l’ambito politico, alla immagine dei due soli nel XVI (il canto di Marco Lombardo) e dell’equilibrio fra il potere temporale e quello spirituale, fino ai canti del Paradiso terrestre e della processione mistica che precisa in forma piú complessa l’errore di Costantino e la necessità di una riforma spirituale della Chiesa.

A questa prospettiva storico-politica si accompagna, nella seconda cantica, non un alleggerirsi delle punte polemiche e morali, ma certo una disposizione piú idillico-elegiaca coerente alla diversa situazione degli spiriti rappresentati, avviati alla salvezza, e pur mesti per il ricordo dolce della terra e insieme per l’amarezza degli errori in essa compiuti. Un’atmosfera piú pacata, tonalità piú luminose e piú morbide, paesaggi meno violenti e spesso piú recuperati nel ricordo delle vicende terrene, una luce piú di crepuscolo e di alba si accordano con visioni di gruppi di anime piú corali e concordi e una musica piú lene e costante accompagna lo svolgersi del viaggio fino alla divina foresta del Paradiso terrestre e ai suoi fiumi (Lete e Eunoè) che vi trascorrono tranquilli e armoniosi, preludio ad elementi della poesia del Paradiso.

Il nuovo tono è chiaramente impostato nel primo canto (prima mattina, paesaggio marino, luce delle stelle simboleggianti le virtú cardinali e teologali, comparsa di Catone, figura di libertà spirituale, severa e composta), si precisa nel grande canto III di Manfredi e delle anime-pecorelle unite nella nuova comunione e nel ricordo mesto della scomunica, per salire lentamente dal preambolo dell’antipurgatorio ai gironi del monte del Purgatorio in cui la pena a tempo è consolata dal pensiero della sicura salvezza e tutta la rappresentazione esemplare-poetica si irraggia di un sentimento di speranza che pur lascia malinconicamente trasparire le lacerazioni che gli errori mondani e l’errore supremo dei «pastori» han provocato e provocano nel mondo.

E dunque a torto l’interpretazione romantica (che tanto valorizzava la poesia dell’Inferno perché drammatica, passionale, plastica) finí in genere per deprimere quella del Purgatorio come troppo blanda e quasi incerta e sfuggente. È invece nel Purgatorio che si può misurare in Dante l’incontro di forza e di delicatezza, di disegno nitido e di sfumature e quindi un ulteriore sviluppo della sua poesia e delle sue possibilità: né, ripeto, in un’evasione dai suoi impegni centrali che pur nel Purgatorio si affermano saldamente, ma con maggiore ampiezza di prospettiva e con una diversa base di speranza e di tensione piú composta e sfumata.

Può apparire dunque sbagliato il vecchio paragone di valore (o di preferenza) per le varie cantiche, che vanno piuttosto considerate nel loro rapporto di sviluppo, sí che la poesia della Commedia può essere veramente compresa solo nel suo intero svolgimento e in tutta la sua ricca e attuata potenza.

E certo non sarà piú in alcun modo accettabile la piú decisa svalutazione del Paradiso, che apparve in altri tempi la parte piú teologica e filosofica (e dunque astratta e raziocinante, non poetica) del poema, quella in cui Dante avrebbe invano tentato di far poesia su di un soggetto misterioso e non sensibile o quella in cui al massimo si potrebbero recuperare passi e immagini riscaldati ancora dagli affetti e dalla realtà terrena.

In realtà il Paradiso rappresenta il supremo impegno poetico di Dante e la stessa poesia dell’Inferno e del Purgatorio e tutta la prospettiva poetica di Dante vengono meglio chiarite e capite dopo la lettura e comprensione dell’ultima cantica. Non a caso il poeta, all’inizio del Paradiso, invocava in suo soccorso oltre alle Muse lo stesso dio della poesia, Apollo, e sentiva ed esprimeva il tremendo compito cui si accingeva: dare vita poetica e fantastica al regno dell’ineffabile, privo di apparenti analogie con la condizione umana. Tanto che egli si sarebbe accontentato di poter manifestare nel suo poema almeno l’«ombra del beato regno» e di accendere, con il suo esempio ardito, altri piú forti poeti.

Ma già lo svolgimento dello stesso primo canto, grandiosa sinfonia dell’ordine cosmico, può indicare come all’intenzione e volontà poetica dantesca corrisponda una sicura capacità realizzativa e come Dante fosse in grado di superare di tanto gli stessi impeti mistici e poetici con cui Jacopone da Todi aveva pure tentato nelle sue laude inni paradisiaci: e piú indietro si pensi a certa innografia medievale latina, come il ritmo del «gaudio» del Paradiso di san Pier Damiani che sicuramente Dante conobbe, o alla ricordata ingenua rappresentazione paradisiaca di Giacomino da Verona.

E nello stesso Paradiso, attraverso la rappresentazione dei cieli sempre piú vasti fino all’Empireo infinito, la visione poetica si approfondisce e si potenzia creando, con l’accrescersi della luce e della musica, con l’uso di immagini sempre piú nuove e sublimi, con l’ardua spiegazione dei misteri teologici, con la voce dei personaggi e le loro storie esemplari, una suprema condizione poetica che impegna lo stesso lettore ad una tensione intellettuale, morale, fantastica sempre maggiore, senza tuttavia perdere mai la sua base umana e concreta e seguendo un cammino di ascesa, di perfezionamento interiore che culmina nelle visioni ed esperienze vertiginose e sublimi dei canti dell’Empireo (la visione del fiume di luce in cui gli angeli si tuffano per alimentare di grazia divina e di nuove bellezze i magici fiori dei beati, la visione della mistica rosa sulle cui foglie hanno seggio i beati prima visti nei singoli cieli corrispondenti alle loro diverse virtú) fino alla folgorante visione di Dio nella sua unità-trinità.

Tutto si fa poesia e, seppure si possono notare momenti di passaggio, pause di ripresa della tensione poetica, appare ormai gretta l’idea di una poesia del Paradiso che si manifesterebbe faticosamente solo in alcuni episodi o in alcune immagini, mentre tutto serve (le stesse cosiddette lezioni didascaliche e scientifiche sulle macchie della luna nel canto II o le interrogazioni fatte da alcuni santi a Dante sulla fede, sulla speranza, sulla carità) a questo processo di innalzamento dell’animo verso la beatitudine e la visione divina che è insieme processo di sviluppo poetico.

Dante è riuscito nella suprema impresa di tradurre tutta la sua immensa cultura letteraria e filosofica, la sua ferma forza morale, la sua passione per la verità e per il rinnovamento dell’uomo in una grandiosa poesia visiva e musicale in cui il suo linguaggio si fa piú attivo, multiforme, suggestivo e pure non perde mai la sua possibilità di evidenza e di definitezza, non diviene mai sfocato e rarefatto.

È cresciuta la difficoltà dell’impresa poetica, ma insieme è cresciuta la potenza rappresentativa del poeta.


1 In quanto il poema svolge in stile umile e dimesso una narrazione che ha triste inizio e fine lieto.